AMAZON E GLI ALTRI “FURBETTI”

Quest’oggi tratteremo un argomento abbastanza controverso ovvero l’evasione fiscale. Nello specifico come le grandi aziende online riescono a pagare sempre meno tasse nonostante i ricavi crescenti.
Lo scorso anno i colossi del web e della tecnologia come Amazon, Google, Facebook, Apple (etc. etc.) hanno guadagnato circa 44 miliardi di euro complessivi. Si tratta di 12 miliardi di euro in più rispetto all'anno precedente. Al netto di tutti questi ricavi però la tassazione effettivamente versata al fisco dei vari paesi dove offrono i loro servizi, per esempio l’Italia, è una cifra che in proporzione si avvicina molto allo zero. Queste accuse sono state lanciate da tutti i principali organi di stampa nazionali ed internazionali e probabilmente un fondo di verità in tutto questo, volendo scavare a fondo, lo si trova.
Ma come fanno? Come riescono a farla franca?
L’esempio forse più esplicativo è quello di Amazon, grazie anche alle recenti dichiarazioni rilasciate dalla società stessa. La sede fiscale in Europa si trova in Lussemburgo, noto paradiso fiscale. Questa sede centrale gestisce le varie sedi operative stanziate nei paesi della comunità europea (Amazon Italia, Amazon France, Amazon Deutschland ….) le quali fanno tutte capo alla società principale che quindi è strutturata come una holding. Le quote di queste compagnie a livello nazionale sono interamente possedute da un’altra azienda, quella estera, la quale a sua volta può essere in mano ad altre società e/o persone fisiche.
Ora per continuare con l’esempio di Amazon, sappiamo che la società di Jeff Bezos ha aumentato il fatturato del 30% rispetto al 2019, ma nonostante ciò il bilancio 2020 è risultato in perdita di circa 1,2 miliardi di euro. Essendo in perdita non solo non ha pagato le tasse ma ha addirittura maturato un credito di imposta di circa 56 milioni di euro! Amazon stessa ha però dichiarato di pagare tutte le tasse dovute per ogni paese in cui opera, per esempio i contributi sulle buste paga dei dipendenti di Amazon Italia vengono regolarmente versati all’INPS.
Il problema sorge invece sulla tassazione inerente agli utili dell’azienda. Portavoce della società stessa hanno dichiarato quanto segue: “L'imposta sulle società si basa sui profitti, non sui ricavi, e i nostri profitti sono rimasti bassi a seguito dei nostri ingenti investimenti e del fatto che la vendita al dettaglio è un'attività altamente competitiva e con margini ridotti". Ecco però l’inghippo, almeno secondo vari studi condotti dai maggiori organi di stampa a livello internazionale (il principale accusatore dei colossi Big Tech è il quotidiano Inglese The Guardian): questi profitti vengono immediatamente “spostati” per evitare appunto la morsa del fisco. I capitali vengono quindi mossi attraverso azioni di compravendita fittizie tra le varie filiali interne al gruppo Amazon stesso, da dove vengono realizzati a dove più conviene che vadano a finire. Per fare un esempio pratico se la sede di Milano (e quindi Amazon Italia) ha ottenuto ingenti guadagni allora metterà in piedi un’operazione come quella appena descritta con la sede di Bratislava (Slovacchia) dove godrà di una tassazione inferiore. Facebook, Google, Netflix, Apple, Microsoft, usano tutti il metodo sopra descritto e sembra che l’ammontare totale di tasse non pagate si aggiri attorno ai 100 miliardi di dollari. Sembra perché in molti paesi queste società non pubblicano nemmeno i bilanci, creando un maggiore alone di mistero e dubbio sulle loro reali attività.
R&S Mediobanca ha analizzato i bilanci di questi colossi nel quinquennio 2015-2019 e le tasse evase da Microsoft si aggirerebbero circa attorno ai 14,2 miliardi di euro, mentre quelle che si sospetta siano state evase da Alphabet (Google) e Facebook ammonterebbero rispettivamente a 11,6 e 7,5 miliardi. Grazie anche alla capacità dei big del web di sfruttare i benefici fiscali che molti paesi concedono, rileva ancora il rapporto, sono volati anche gli utili aggregati che hanno toccato nel 2019 i 146 miliardi, incrementati ad un tasso medio annuo del +24,1%. A differenza, ad esempio, delle multinazionali manifatturiere, ferme ad un +0,6%.
Gli esperti hanno segnalato che ogni gigante dell’ambito WebSoft ha mediamente prodotto 16 milioni di utili netti al giorno (erano 7 milioni nel 2015), per un totale di 480 miliardi di profitti cumulati nel 2015-2019. In parallelo è aumentata la forza lavoro, con 2,2 milioni di persone assunte in tutto il mondo alla fine dello scorso anno, facendo segnare un incremento di un milione di lavoratori rispetto al 2015, di cui +567 mila grazie alla sola Amazon, che con l'acquisto dei supermercati Whole Food, è diventata regina per numero di occupati: 798mila a fine 2019.
Infine, e questo è un problema tipicamente Italiano, dobbiamo considerare anche la mancanza di una tassa specifica sui fatturati delle multinazionali di questo settore. La web tax era stata già introdotta con la Legge di Bilancio 2019 ma i decreti attuativi necessari per la sua entrata in vigore non sono mai emanati. Nella Legge di Bilancio 2020 viene nuovamente introdotta, questa volta senza la necessità di decreti attuativi, dunque entrerà immediatamente in vigore. L’aliquota è pari al 3%. Ma non è finita. L’ultimo comma della Legge di Bilancio in realtà passa la palla agli organismi sovranazionali, perché in esso si legge che nel caso in cui subentrino accordi internazionali per disciplinare le imposizioni fiscali ai colossi di internet, la web tax italiana è da intendersi abrogata.
Amazon si difende, sostenendo di pagare quanto dovuto. L’azienda ha fatto sapere di versare il giusto all’Erario, considerando che i profitti sono spesi per gli investimenti che stanno facendo nel nostro Paese e che porteranno a breve altri 1.000 posti di lavoro. In sostanza, dice Amazon, non solo paga le tasse dovute, ma l’importo è persino più alto di quello stimato dal rapporto, tanto che l’aliquota dichiarata dal re dell’e-commerce è del 24%.